Cesare Baronio

Papa e Santo mancato.

Fu più volte indicato alla successione della Cattedra di S. Pietro. Alla sua elezione si oppose la Spagna. Il giudizio e l’ammirazione
di Papa Giovanni XXIII.
Un giorno di dicembre del lontano 1907, la sala grande del Seminario di Bergamo era affollata.
C’erano seminaristi, monsignori e c’era anche il Vescovo. L’interesse dei convenuti e la loro curiosità erano grandi.
Per l’oratore e per l’argomento.
L’oratore un prete giovanissimo ma già in fama di studioso serio ed appassionato; l’argomento, quanto mai singolare: la commemorazione di un oscuro cardinale del ‘500, Cesare Baronio.
Il nome di quel prete era Angelo Roncalli. Non si trattava di una commemorazione affidata casualmente ad un giovane dotato. Don Roncalli aveva da tempo una profonda dimestichezza con la figura del Baronio, sl che ne aveva adottato e lo stemma e il motto (“oboedentia et pax”).
Giunto al soglio pontificio, egli consenti la ristampa di quel discorso, che fu realizzata nel 1961.
Ma già qualche tempo prima dell’elezione, Roncalli aveva dimostrato pubblicamente la aua devozione allo storico ciociaro e marsicano. Poco prima del conclave che lo avrebbe innalzato alla dignità papale, volle rendere omaggio alla tomba del Baronio nella chiesa dei Filippini a Roma. Un altro episodio è indicativo della irritualità di certi comportamenti di Papa Giovanni: dopo la sua elezione, mentre ritornava dalla Basilica Lateranense in mezzo alla folla plaudente, arrivato in piazza della Chiesa Nuova, il papa fece una grande scappellata, spiegando agli stupefatti prelati del seguito: “Ci sono le tombe di Filippo Neri e dello storico Cesare Baronio”.

Tutto questo convince che il discorso tenuto nel lontano 1907 nel seminario di Bergamo non era una conferenza di occasione, bensì l’esaltazione della personalità di un grande uomo, come religioso, come storico. La seconda metà del secolo sedicesimo vede celebrarsi il Concilio Tridentino (1545-1563).
La riforma luterana è all’attacco in tutta Europa e comincia a guadagnare a sé re e principi; le nazioni si fanno e si disfanno come gigantesche maree attratte da Roma e da Wittenberg.
L’Europa centrale, la Francia, l’Inghilterra, la Scandinavia ribollono. Si discute dappertutto, si spacca in quattro il capello delle colpe e delle responsabilità, si condanna, si odia, si uccide, sempre in nome dell’eredità di Cristo e degli Apostoli. Nel 1541 un giovane aspirante monaco, di Albona, in Dalmazia, Matthias Vlacic, detto lllirico, si reca in Germania su consiglio di un parente, seguace della Riforma. Incontra prima Melantone e poi Lutero.
Diviene professore di lingua ebraica a Wittenberg. Il grande riformatore ne fa il suo pupillo e questi lo ripaga più tardi difendendo appassionatamente le sue tesi nella disputa sinergistica e perfino contro lo stesso Melantone.

L’amore entusiatico per l’opera di Lutero e l’odio profondo contro il papato, lo inducono allo scopo di dimostrare indiscutibilmente il “tradimento” del Cristianesimo perpetrato dalla Chiesa di Roma a progettare una grande opera storica che copra il periodo da Cristo ai suoi tempi.
Flacio si circondò di collaboratori scelti tra i migliori studiosi tedeschi dell’epoca. L’enorme lavoro di ricerca di testi e documenti in tutte le città d’Europa venne compiuto da questi eruditi, chiamati poi “centuriatori” per il fatto che la “Historia Ecclesiastica” fu divisa per secoli (centurie).
Tutta l’opera è più conosciuta come “Centurie Brandeburghesi”, poiché nella città di Brandeburgo fu impostato tutto il lavoro. Si dice che la ricerca dei documenti venne effettuata con notevole rnancanza di scrupoli e che spesso furono usate abbondantemente le forbici per sottrarre parti di documenti. L’uscita delle “Centurie” provoca un soprassalto in tutto il mondo cattolico. Nella sua commemorazione del Baronio, Roncalli scrive: “L’attacco dei centuriatori aveva lasciato i cattolici umiliati, avviliti, disfatti”.

La costernazione era grande. Gli scritti di alcuni apologeti che tentarono di parare il colpo si rivelarono flebili voci nel bailamme generale. Ci si provarono Onofrio Panvino ed il Canisio, Thomas Stapleton e Roberto Bellarmino.
Ma lacappadi oppressione non si incrinava. Pio V istituì una commissione cardinalizia per confutare i Centuriatori, ma no si approda a nulla. Anche Filippo Neri considerava le Centurie Brandebughesi” efficacissime e pericolosissime per la Chiesa cattolica”.

Il fatto è che per la prima volta era stata scritta una grande opera storica sulla chiesa su basi scientifiche. Il volenteroso precedente del Venerabile Beda era solo una ingenua storia della Chiesa anglo-sassone.
Colui che intuisce quale sia la via maestra da seguire per ridare fiducia alla comunità cattolica sgomenta, è il Preposto Generale della Congregazione dell’Oratorio, Filippo Neri.
C’è, nell’Oratorio, un giovane sacerdote originario di Sora, persona schiva, di sicura vocazione, modesta, rigorosissima per quanto attiene al rifiuto dei beni mondani. Si chiama Cesare Baronio. A lui, malgrado le sue resistenze ed obiezioni, Filippo dà l’incarico di redigere una grande opera storica in grado di controbattere e di confutare le accuse di Flacio e dei suoi collaboratori. Cesare Baronio era venuto a Roma per proseguire gli studi di Diritto iniziati a Napoli.
Era stato il padre Camillo, che apparteneva ad una piccola nobiltà afflitta da ristrettezze finanziarie, a spingerlo verso un tipo di studi, che avrebbero potuto far approdare a cariche ben remunerative, capaci di risollevare il senso della famiglia. A Roma Cesare conobbe Filippo Neri e questo incontro segnà il suo destino. Occorre dire che l’arrivo a Roma del Baronio avvenne in un momento particolarmente felice per il mondo cattolico romano, altrimenti poco attento ai richiami dell’etica cristiana. Rappresentanti dello spirito religioso, allora, erano due uomini di eccezionale statura intellettuale e morale: appunto, Filippo Neri e Carlo Borromeo.
In questo ambiente baronio individua subito il cammino che avrebbe percorso. Abbandona gli studi di Diritto e si dedica completamente alla vita religiosa. Questa decisione fu disperatamente avversata dal padre che, deluso nelle sue speranze materiali, arriva a diseredare il figlio. Il Baronio oppose alla corruzione dilagante un comportamento improntato ad umiltà francescana e purezza di cuore.
Tuttavia si rendeva conto dell’abisso in cui tutto rischiava di precipitare, al punto da temere che “davvero il Signore si fosse addormentato nella barca di Pietro”.

E’, la sua, una fede consapevole, che guarda con coscienza lucida al mondo in cui vive: “Non pensate che senza gran providenzia Dio in questo eletto m’abbia (che forsi all’huomini mondani parera una pazzia)”. Egli sembra un uomo nato fuori del suo tempo. Sembra un cristiano dei secoli Vlll e IX, quando, parallelamente alla furia iconoclasta che avanza da Costantinopoli, tutto il pensiero cristiano si fonda su di un neo-platonismo ricco di tensione metafica e di conseguente svalutazione della realtà terrena.
Tutto l’interesse del Baronio è per la Chiesa e per il popolo di Dio e dunque ben distante dalla cultura dominante all’epoca; anche se va detto che dopo il Concilio, si vanno aggrumando certe tendenze al misticismo ed allo spiritualismo.
C’è in Baronio una fede cosî salda e coerente nella vita eterna da accogliere con gioia la notizia della morte della madre: “Visto quel che scrivete del felicissimo transito di quell’anima benedetta, ne ho pigliate grande consolazione”. Una convinzione così sincera si riscontra solo tra i primi martiri cristiani ed in alcuni personaggi del cattolicesimo anglosassone (S. Brendano e lo stesso Beda). Filippo Neri soleva chiamarlo il “cappellano della morte” per la serenità con cui trattava questo argomento.

Fu proprio Filippo Neri a trasformare con concretezza d’azione quei fastigi spirituali nei quali il giovane provinciale tendeva a rifugiarsi.
E Cesare si mise duramente a lavoro per costruire l’opera richiesta, una storia della Chiesa che dimostrasse la perfetta aderenza di questa ai valori cristiani.
Si impegnò con la stessa determinazione che osava porre nello affinamento del suo spirito. La redazione degli “Annales” si prolunga per decine di anni. Baronio vi lavora quasi completamente solo.
Finalmente, nel 1588 esce il primo volume, edito dalla stamperia Vaticana. Forse mai nella storia dell’editoria, un libro è stato accolto con pari entusiasmo e con tanta trepida attenzione dei volumi successivi.
Tutto il mondo cattolico si sentì liberato dalla tensione e dal senso d’impotenza, e tirà un sospiro di sollievo, come se un gravissimo, mortale pericolo fosse stato scongiurato per un intervento provvidenziale. La fama dell’autore si diffuse per tutta l’Italia e per l’Europa. Finalmente i due contendenti potevano combattere ad armi pari.
Laddove le “Centurie” puntavano sulla dottrina, gli Annali si diffondevano sulle istituzioni e sui personaggi; mentre la concezione della storia del Baronio era religiosa e provvidenziale, quella del Flacio era dialettica e fortemente polemica.

Si può dire, comunque, che allo stato della storiografia del tempo, le due parti in conflitto – gravate da responsabilità epocali avevano inventato il metodo storico moderno, fondato non più su tradizioni e credenze, ma su documenti precisi. Presto le copie del primo volume degli “Annales” si esaurirono e venne stampata una seconda edizione corretta ed arricchita, ad Anversa.
Il Baronio, incurante del coro di lodi, che gli piovono da tutti i Paesi, corti, università e dalle alte gerarchie vaticane, prosegue senza soste il suo lavoro, quasi infastidito per tutto il parlare che si fa intorno a lui. Per non ritardare troppo la redazione degli altri volumi, respinse l’offerta di vescovati e di incarichi lucrosi.
Nel 1593 Filippo Neri lascia per motivi di età la carica di Preposito Generale della Congregazione dell’Oratorio e designa il Baronio, suo confessore, a succedergli. Intanto il Sorano è divenuto confessore del papa ed in tale veste riesce a sciogliere un grosso nodo politico – diplomatico – religioso europeo, convincendo il Pontefice a concedere l’assoluzione al re di Francia, Enrico IV, già scomunicato dalla Santa Sede.
Nel 1595 papa Clemente Vll lo nomina Protonotario Apostolico, carica molto prestigiosa, che il Baronio rifiuta perché “si vergognava di indossare vesti di prelato” che notoriamente erano molto lussuose. Nel 1596 il papa glï impone il cappello cardinalizio vincendo la forte resistenza del grande storico con la minaccia di scomunicarlo “ipso facto” se non avesse accettato. Quest’uomo che “aborre le pertubulente cure del mondo ed i noiosi strepiti dei tribunali”, mantiene fermo questo rigore nella sua grande opera di scrittore e di storico. Rispondendo ad una lettera di padre Talpa che si faceva portavoce di ambienti che sollecitavano il Baronio a spendere qualche autorevole parola in favore della famosa “Donazione di Costantino”, egli risponde: “L’editto della donazione è pieno di bugie inscusabili. Vi prego, per carità, non mi fate imbrattar penna a scrivere et difendere si fatte menzogne a Dio odibili qual’è Dio di verità.

De volerla difendere e indrizzar le gambe ai cani, perdonatemi, non lo saprei mai fare perché certo mi parrebbe di peccare gravemente”. Lorenzo Valla non avrebbe potuto essere più severo. Di rigore morale ed intellettuale del Baronio, sono indiscutibili testimonianze, fra l’altro, la sua opera “De monarchia Sicula” contro le pretese del re di Spagna sulla Sicilia, e la “Parenesis ad republicam venetam”, in difesa dei diritti della Chiesa. Scrivea Roncalli: Grande è la sua inflessibilità morale in periodo cosi conturbante come quello del Rinascimento. Non segui l’andazzo comune di riverire e lodare”.
E della sua umiltà è prova cià che lui stesso scrisse dopo la morte del suo maestro, San Filippo Neri, a proposito dei suoi meriti nella redazione della sua opera monumentale: “Tu unisti la tua forte mano alla mia debole e trasformati la mia penna spuntata in una freccia del Signore contro gli eretici”. Nei due Conclavi che succedettero alla morte di Clemento Vll e di Leone XI, si trovò ad essere il candidato favorito.
Non venne eletto in entrambi consessi per la netta ostilità della Spagna che egli non aveva esitato a sfidare nello interesse della Chiesa. E forse quello non fu il solo motivo.
Cesare Baronio era un personaggio troppo scomodo, poco incline ai compromessi che fossero in contrasto con i principi evangelici. Come Giovanni XXIII ohe ne aveva adottato il motto, era, si, disposto all’obbedienza, ma si rivelava fatto d’acciaio, quando erano in questione principï irrinunciabili.
Forse Cesare Baronio non fu fatto papa proprio per questo. Quest’uomo “d’integra vita scelerisque purus”, come lo defin1 il diplomatico urbinate Ceci, questo grande storico, questo intelligente politico dovrebbe, a detta di Roncalli, avere il giusto rilievo nel quadro della Riforma cattolica, accanto ai S. Carlo Borromeo ed ai S. Ignazio di Loyola.
Saprà l’intellettualità cattolica diradare le nebbie del tempo e della sottovalutazione che hanno nascosto finora uno dei più grandi uomini che hanno onorato il Cristianesimo ed hanno contribuito a difendere la Chiesa dallo scisma luterano?
Dante Areta

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