“Il Biabbà ” di Quirino Lucarelli

Vogliamo riportare all’attenzione l’importante lavoro storico letterario il “Biabbà” scritto da Quirino Lucarelli e curato da Tito Lucarelli. L’opera dedicata alla gente di Trasacco è composta da tre volumi per un totale di millenovecento pagine di alta e varia cultura, è nata dalla curiosità di “spigolare” tra le parole e le cose del mondo agro-pastorale-artigianale per poi spaziare nell’aforistica, nell’aneddotica, nella storia, nell’archeologia, nella toponomastica, nella religione, nella letteratura, nella poesia e perfino nelle scienze mediche. Ne risulta un vero monumento al sapere, specchio di tutta una civiltà destinata al tramonto e recuperata in extremis sulla scorta di una documentazione di pregio inestimabile.

PREFAZIONE
Nel concludere la nota informativa sulle fonti utilizzate per le sue ricerche, Quirino Lucarelli, con una modestia pari solo alla sua straordinaria sensibilità, afferma che il suo lavoro non è stato altro che quello di un solerte raccoglitore di notizie, catalogate ed ordinate in circa 36.000 (trentaseimila) schede, ed annotate su tantissimi bigliettini, scontrini, cartoncini di scatole di cerini, pacchetti di sigarette, bordi di giornali, carta rustica, foglietti volanti, che per trent’anni della sua vita egli era venuto accumulando, conservando e collazionando. Addirittura, avendo raccolto le “notizie” soprattutto dalla viva voce di “poveri analfabeti” del suo paese natio, Trasacco, egli giunge a dire che l’opera, in fondo, più che sua, è della “modesta gente trasaccana”.

Chi ha conosciuto da vicino Quirino Lucarelli, avvocato oltre che docente di materie giuridiche ed economiche negli Istituti Tecnici, non si stupirà di questa professione di umiltà. Io mi onoro di essergli stato amico al punto di averlo “costretto” a rompere il duro cerchio della sua riservatezza e farlo venire, come si suol dire, allo scoperto.

La nostra amicizia sorse appunto agli inizi delle sue ricerche, verso la metà degli anni Sessanta: facevamo insieme i pendolari tra Avezzano e Roma come commissari agli esami di maturità e, sapendo dei miei interessi per la critica letteraria, una mattina mi lesse alcune sue “poesiole” (così le chiamava) in dialetto. Mi piacquero molto; particolarmente mi commosse il sonetto in cui “raccontava” di aver sognato la giovane moglie, che era scomparsa da poco lasciandolo solo con tre figli in tenerissima età. Lo incoraggiai a scrivere ancora, anche perché – gli dissi – lo “sfogo” lo avrebbe consolato di tante tristezze. Se ne convinse tanto che, ad ogni incontro successivo, m’informò puntualmente delle cose scritte ed io lo “perseguitai” benevolmente con le mie pressioni e impressioni, fino a quando non si decise a pubblicarle in un denso volume, dal bel titolo “Ratiche de paese” (Edizioni dell’Urbe Roma 1988, Collana dei poeti dialettali da me ideata per l’Istituto dialettologico d’Abruzzo e Molise, fondato da Giovanni Pischedda, dell’Università dell’Aquila).

Nelle lunghe ore passate in treno per tutto il mese di luglio, il caro amico non mi lesse solo poesie, più o meno ispirate alle sue vicende dolorose, ma mi parlò anche della sua nascente passione per l’antropologia in generale e per la dialettologia in particolare. Una passione, compresi subito, non da curioso dilettante, ma da ricercatore scrupoloso e pertanto mi sentii in dovere di sollecitarlo – ricordo bene – ad approfondire gli studi di linguistica romanza (avendo egli alle spalle una formazione classica di tutto rispetto come usava un tempo) congiuntamente agli studi di abruzzesistica.

Più volte, in seguito, gli chiesi come procedesse il lavoro e lo vidi preoccupato per la “montagna di carte” che aveva da sistemare. Finalmente, qualche anno prima della morte, mi consegnò una decina di fascicoli con circa duemila cartelle fittamente dattiloscritte. Ne rimasi ovviamente strabiliato, non tanto per l’opera che in sé mi parve subito monumentale, quanto per il rigore “scientifico” dell’ordinamento che era riuscito a dare ad una materia sterminata. Veramente entusiasta dell’opera, colsi di lì a poco l’occasione di farne ampiamente cenno nella sala consiliare del Comune di Trasacco il giorno in cui, su mia proposta, gli fu reso un pubblico omaggio con la consegna di una targa ricordo; e pregai caldamente amici e autorità presenti di adoperarsi affinché il frutto prezioso di tale lavoro non andasse perduto.

Temevo, francamente, che con la scomparsa dell’autore l’opera rischiasse di essere dimenticata nei cassetti della sua scrivania. Ed invece, per fortuna non è stato così, per merito esclusivo di Tito Lucarelli, fratello di Quirino, e Francesco Cardarelli, docente di materie classiche nel Liceo “A. Torlonia”. Bisogna dire infatti che l’opera, pur giunta alla stesura definitiva, non aveva avuto l’ultima mano, cioè mancava della cosiddetta rifinitura: specialmente negli ultimi tempi, colpito da un grave malanno agli occhi, il povero Quirino aveva lasciato qua e là errori di battitura, apportato correzioni pressoché indecifrabili, annotato aggiunte e ripensamenti difficili da ricostruire e collocare al punto giusto. I curatori hanno dovuto, pertanto, affrontare un lavoro pazientissimo di rilettura, ripulitura e, qua e là, ricucitura: un lavoro, si pensi, durato ben otto anni, ma che ha consentito il miracolo di rendere pubblicabile l’opera nella sua completezza.

Un’opera enciclopedica, a dir poco, che sfugge ai parametri dei generi letterari: il sottotitolo Storia di una cultura subalterna sarebbe piaciuto indubbiamente al grande antropologo Alfonso di Nola, che ebbe modo di leggerne pagine esemplificative restandone ammirato fino al punto da disporsi spontaneamente a caldeggiarne, se la morte non l’avesse nel frattempo sopraggiunto, la pubblicazione presso qualche grande editore.

A mio modesto avviso, l’opera è di una così alta e varia cultura, che trascende – a tratti – i confini della cosiddetta subalternità: nata dalla curiosità di “spigolare” tra le parole e le cose del mondo agro-pastorale-artigianale, via via è venuta poi spaziando nell’aforistica, nell’aneddotica, nella storia, nell’archeologia, nella toponomastica, nella religione, nella letteratura, nella poesia, perfino nelle scienze mediche. Ne risulta un vero monumento al sapere, specchio di tutta una civiltà destinata al tramonto e recuperata in extremis sulla scorta di una documentazione di pregio inestimabile.

Per avere una sia pur vaga idea dell’immensa fatica costata all’autore, si dia uno sguardo alla straripante bibliografia che, per sua esplicita confessione, ha dovuto per più di trent’anni indagare, consultare, catalogare: centinaia di pubblicazioni in volume, migliaia di opuscoli, riviste, giornali, in gran parte reperiti presso archivi pubblici e privati, perfino registrazioni di lezioni e conferenze tenute da specialisti delle più varie discipline.

E si pensi alla incalcolabile mole di appunti, come ricordato in premessa, raccolti dalla gente comune, per le strade e le piazze, nelle case e nei bar, nei quartieri più popolosi e nelle isolate periferie: una vera e propria miniera di “fonti orali”, senza le quali sarebbe stato impossibile approntare l’apparato linguistico di base.

Fatica davvero improba, questa di Quirino Lucarelli, ma altamente meritoria, per non dire impareggiabile: opera imponente nel suo insieme, eppure accessibilissima per la limpidezza della forma espositiva e, quel che più conta, di agevolissima fruibilità per la sua interna strutturazione di tipo dizionaristico.

Avezzano, Aprile 2002

Vittoriano Esposito

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NOTE DEI CURATORI

Mi sono avvicinato all’opera di mio fratello, Quirino, alla quale egli lavorava già dal lontano 1964, nel giugno del 1994. All’inizio l’ho fatto con una certa curiosità, poiché, nonostante avessi parlato continuamente e per anni con lui del suo lavoro, non mi ero mai reso conto di cosa effettivamente ed esattamente esso contenesse. E così, preso in mano un estratto della raccolta, che mio fratello mi aveva dato in dono, cominciai a leggere.

Presentava molti errori di battitura a macchina, dovuti al fatto che Quirino, per sopraggiunti problemi di vista, non vedeva più bene la tastiera. Dalla lettura emergevano inoltre altri problemi da risolvere, come, ad esempio, quello del raccordo del contenuto fra le varie voci per evitare inutili ripetizioni; quello della presenza di molti lemmi scritti graficamente in modo diverso per motivi di interpretazione fonetica, il cui contenuto andava riunito insieme sotto un’unica voce, lasciando tuttavia nell’elenco dizionaristico ognuno di essi con gli opportuni rinvii, distinguendo però quelli che costituivano delle varianti; quindi il problema del minuzioso controllo dei numerosi rinvii; e poi ancora quello delle verifiche bibliografiche, dei controlli delle date e dei dati, e, non ultimi, quelli relativi ad una migliore impostazione sintattica, ad un miglioramento dello stile ed alla ricerca etimologica.

Quirino pensava di affrontare e risolvere tutti i suddetti problemi non appena avrebbe terminato la prima stesura, che era stata fatta velocemente e di “getto”, come egli sosteneva. “Dopo la prima battitura, avrei dovuto cominciare a mettere ordine al tutto – affermava – pensavo inoltre che sarei rimasto sempre giovane e che avrei avuto tutto il tempo necessario da dedicare all’ultimazione del mio lavoro. Ed invece….”. Ebbene, una cosa fu subito chiara e certa, quando iniziai a leggere l’estratto che possedevo, ovvero che il contenuto era incredibilmente eccezionale, accattivante, affascinante, intenso, interessantissimo, pieno di notizie: ero di fronte ad un lavoro come pochi.

Iniziai, quindi, quasi per gioco e per passatempo, a mettere ordine al materiale di cui disponevo.

Arrivato al termine del lavoro, mi recai in casa di Quirino per sottoporglielo. Lo invitai a leggerlo e a dare un giudizio molto severo, senza farsi influenzare dal fatto che io fossi suo fratello. In quella stessa occasione egli mi disse inoltre che, se non avesse trovato qualcuno che si fosse interessato alla sistemazione dell’opera, dopo la sua morte, l’avrebbe lasciata così come lui l’aveva trascritta presso la biblioteca di Avezzano con l’obbligo di non renderla pubblica e consultabile per un periodo di cinquanta anni.

Fu per me una brutta notizia. Sarebbe stato un peccato non dare l’opportunità ad altri eventuali lettori di poterla “gustare” subito.

Da parte mia, non avevo ancora deciso se continuare a lavorare su di essa, sia per la sua voluminosità, che avrebbe richiesto molto tempo, come infatti poi è stato, sia perché francamente mi sentivo molto “piccolo” per affrontare un così arduo compito.

Dopo qualche giorno mio fratello mi diede la sua risposta: “Va bene!” mi disse. Fu per me un motivo di grande soddisfazione, ma fu anche la risposta che mi mise con le “spalle al muro”. E così decisi, con gran timore, umiltà e pieno di dubbi di andare avanti.

Un anno dopo, quando già avevo iniziato il lavoro di correzione e sistemazione, nel giugno del 1995, trovai l’interessamento e la preziosa collaborazione dell’amico Francesco Cardarelli, che, non appena ebbe l’opportunità di leggere qualche pagina dell’opera, ne rimase fortemente e positivamente impressionato.

Nell’aprile del 2002, dopo quasi otto lunghi anni, in cui sono stato (e non è retorica) seduto su di una sedia, quasi tutti i giorni, spesso anche festivi, a lavorare per diverse ore giornaliere, sotto la supervisione di Quirino, fino a quando non è sopraggiunta la sua morte, il 10 aprile del 1997, e con la collaborazione dell’amico Francesco, sono finalmente arrivato alla stesura finale.

Desidero tuttavia sottolineare ciò che più volte mio fratello ha affermato, e cioè che tale opera, pur se ha richiesto moltissimi anni di impegno e di paziente ricerca, per la quale egli si è servito di importanti metodi di studio, come quello del dialettologo, dello storico, del sociologo, dell’etnografo, dell’antropologo, del narratore e così via, non ha la pretesa di essere esaustiva di tutto il conoscibile che potenzialmente è possibile ricavare dal mondo che essa ha osservato. Forse se ci fosse qualcun altro che decidesse di continuare in tale ricerca, probabilmente uscirebbe fuori una raccolta dal contenuto diverso e altrettanto qualitativa e quantitativa.

GRAZIE Quirino, per avermi dato l’opportunità di fare un’esperienza letteraria affascinate, travolgente, che mi ha arricchito moralmente e culturalmente e che non avrei mai immaginato di potere avere nella mia vita!

Desidero dedicare tutto il lavoro da me svolto a mia moglie Claudia ed alle mie due figlie, Lorena e Lidia.

Credo, inoltre, per terminare, interpretando anche quello che senza dubbio sarebbe stato il desiderio di Quirino, che egli avrebbe dedicato tutto il frutto del suo sacrificio alla memoria di sua moglie Tina e del figlio Claudio, prematuramente scomparsi, ed agli altri tre figli Esterita, Claudia e Piero.

Trasacco, Aprile 2002

Tito Lucarelli

Scrivere due parole, ma che cosa? Come collaboratore nella revisione dell’opera non puoi farne a meno, mi ha fatto chiaramente capire Tito Lucarelli.

Non toccava certo a me scrivere la prefazione. Per questa si ricorre solitamente a qualche firma di prestigio e nel nostro caso si è gentilmente offerto Vittoriano Esposito, ma non tanto per la firma, quanto per gli antichi vincoli di amicizia che lo hanno legato a Quirino, ma soprattutto per avere avuto diverse occasioni di visionare il lavoro di Quirino in corso d’opera, e quindi di conoscerlo bene e di trovarlo semplicemente monumentale.

La presentazione dell’opera per la parte che io e il fratello di Quirino ci siamo assunti, toccava di diritto, non fosse altro che per la maggiore mole di lavoro svolto, a Tito Lucarelli, a cui bisogna quanto meno dare il merito, al di là della promessa fatta al fratello, di avere portato avanti un lavoro imponente di revisione ed in parte di integrazione dello sterminato materiale lasciato da Quirino.

Quanti dubbi, quante incertezze, quante difficoltà abbiamo incontrato, soprattutto all’inizio, dovuti in gran parte alla consapevolezza che ci trovavamo di fronte ad una raccolta nei cui rispetti le nostre risorse culturali erano senz’altro impari. E poi, grazie a Dio, siamo riusciti a trovare la collocazione giusta per andare avanti, ricercandola in un grande sforzo di volontà e soprattutto di umiltà.

Ora che si è giunti alla fine del lavoro, suscettibile senz’altro di essere migliorato ed ampliato, a noi non importa tanto se siamo stati all’altezza del compito: quello che ci rende oltremodo soddisfatti è che abbiamo reso il lavoro di Quirino pubblicabile, pur con le imperfezioni che inevitabilmente in un’opera di tale dimensione si possono incontrare.

Permettetemi adesso di scrivere quelle due parole con cui ho aperto questo mio intervento. Non mette conto di dire qualcosa nella mia veste di collaboratore. Non credo che ne valga la pena: la nostra collaborazione si è limitata in buona sostanza ad un lavoro umilmente scolastico. Quello che mi preme di dire è di esprimere un grazie dal profondo del cuore a Quirino, di esprimerlo pubblicamente, perché in privato l’ho più volte ringraziato; l’ultimo grazie gliel’ho espresso pochi giorni prima che lui morisse, sul suo letto d’ospedale. Grazie a Quirino per avermi concesso il privilegio, come dire, in anteprima, di riscoprire e scoprire un mondo che, per quel poco che conoscevo era sedimentato dentro di me, ormai inerte, senza più afflato emotivo.

Le parole di Quirino mi hanno restituito sentimenti, emozioni, ma soprattutto amore per una civiltà ormai scomparsa e che Quirino, con il salvataggio delle parole, ha innalzato a dignità di storia, riportando alla luce la cultura di un popolo che è il substrato essenziale di quell’altra storia di cui si occupano gli storici di professione.

Trasacco, Aprile 2002

Francesco Cardarelli

Storie e Cultura
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