Perdono a Sant’Angelo

di Eleuterio Di Gianfilippo

Stava ormai per concludersi, la sera del 7 Maggio, il periodo del Sacro Ritiro di Sant’Angelo nella Chiesa di Candelecchia, posta tra i boschi della catena che dal Salvia si estende, tra la valle del Liri e il Fucino, fino a Villavallelonga ed oltre fino al Parco Nazionale di Abruzzo. Per maggior parte dei Trasaccani, per i quali la vita tutta dedita lavoro non ha altro diversivo se non l’osteria o qualche fes « Santo Angelo » rappresenta una data importante: la vita in c mune, la lettura ad alta voce delle frasi del Vangelo, della Bibbia
e di altri libri della Chiesa, il morte e della vita, le lunghe e suggestive Processioni per le coste, il chiamarsi tra di loro non per nome, ma « fratelli » e il rispondere « Ave Maria », e tutte le specie di preghiere, i Rosari, le Sette Allegrezze, le Litanie Lauretane, le Adorazioni, le Suppliche, e quel quasi disaccarsi insomma dalla vita reale e bruciante di tutti i giorni Producono sui loro animi un fascino irresistibile.

S’avviano verso Candelecchia a gruppi o anche isolati, parte il giovedì, parte il venerdì o anche il sabato, di giorno e di notte senza distinzione di ore, carichi di provviste di ogni genere, servendosi chi di zaini, chi di fagotti appesi in cima ad un bastone, chi infine di asini, i quali, abituati come sono a percorrere quella stessa strada sotto l’incitamento delle urla, delle bestemmie e dei colpi di bastone, ora, quasi stupiti della dolcezza insolita con cui sono tratti, si fanno vispi ed irrequieti e ogni tanto si danno a trotterellare. Lassù hanno quindi inizio i riti: lente processioni che attraverso lunghi giri percorrono i sentieri appena tracciati in mezzo ai boschi, preghiere comuni, ore di raccoglimento notturno nell’interno della Chiesa e insomma tutta una vita di eccezione nel corso della quale ciascuno dei pellegrini s’abbandona a poco a poco ad uno stato di mistica esaltazione.

Così quella sera una lunga processione di uomini di ogni età, senza apparato alcuno, sommessamente salmodiando, risaliva con estrema lentezza attraverso numerosi viottoli serpeggianti tra alberi e cespugli il versante occidentale della montagna di Candelecchia. Venivano in testa una gran Croce, portata a spalle dal Crocifero, seguito da due Ceroferari e, immediatamente dopo, portati da otto giovani, il Cristo morto e l’Addolorata. Seguivano in ordine il Padre Direttore, il Parroco, due Frati del vicino Convento di Luco dei Marsi ed il gruppo dei Cantori insieme al Prefetto ed al Vice-Prefetto del Sacro Ritiro. Ogni tanto i tre religiosi ed il gruppo dei Cantori cominciavano a recitare ad alta voce le prime parole di una preghiera e subito tutta la colonna di varie centinaia di persone, di cui le ultime per la tortuosità del sentiero non riuscivano mai a vedere le prime, dava inizio all’altra parte, ed era come se un fremito la percorresse tutta. Ai latí della colonna altri cantori disciplinavano le preghiere, mentre Taborre, che sovrastava tutti per l’altezza, con la sua voce potente e baritonale, nonostante l’età, girandosi ogni tanto attorno, coordinava come meglio poteva le voci dei salmodianti, anche di quelli più lontani, che completamente presi dalla fervida atmosfera di preghiera procedevano, simili ad automi, sgranando ognuno una corona nera tra le dita.

Si era nell’imbrunire, il cielo tutt’intorno cominciava a farsi largo e pieno, di qualla pienezza limpida, che ha il cielo nelle montagne, dove il sopravvento della notte non pare gonfio di tenebre, ma come impregnato d’una luce ariosa che risalga dalla terra e si raccolga ad alone intorno all’orlo delle vette. In testa alla colonna i Ceroferari aveva cominciato ad accendere i ceri, imitati subito dopo da quelli che li seguivano, sicchè sembrava che a poco a poco una scia luminosa s’addentrasse serpeggiando nel bosco. E a guardarli alla luce guizzante delle fiammelle, i volti dei pellegrini assumevano una espressione mobile e strana, tra di tripudio e d’assorto raccoglimento, quasi nessuno avvertisse più la stanchezza e tutti invece si abbandonassero alla sensazione di vivere in un clima irreale, che il notturno isolamento, il silenzio dei boschi, lo stesso sentirsi affratellati dal canto e dalla preghiera, accentuavano e colmavano di dolcezza.

Era il momento in cui il demonio, insinuatosi tra gli uomini al calar delle tenebre, veniva definitivamente sconfitto con l’aiuto divino. Man mano che arrivavano alla piazzetta antistante alla Chiesa di Candelecchia, i fedeli sembravano quasi riaversi da una visione estatica e si disponevano in vari gruppi, continuando a cantare. Anche i religiosi e i cantori avevano da tempo smesso di dirigere le preghiere e cantavano ormai insieme a tutti gli altri, presi anch’essi dallo stesso intimo trasporto.

La processione ormai stava per terminare. L’ultima parte della colonna era giunta nei pressi de « La fonte » a brevissima distanza dalla Chiesa, a cui era unita da un gomito di strada abbastanza lungo. Nella piazzetta i fedeli spegnevno i ceri e così, mentre la luce diminuiva, si attenuava anche il canto. Di li a poco, dopo la cena che i pellegrini avrebbero consumata nei propri giacigli posti qua e là nei punti più vari della Chiesa, sarebbero venuti il Te Deum e la ricreazione, e poi il Rosario e le preghiere della sera, finchè il silenzio, rotto soltanto dal ritornare delle grida degli uccelli notturni avrebbe avvolto nella sua misteriosa solennità tutte quelle anime immerse nel sonno.

Da oltre un’ora Rufino, sorpreso prima dalle voci confuse della processione che si avvicinava e che egli invece pensava avrebbe percorso l’altro versante della costa, se ne stava appiattato dietro una siepe. immobile e con il fiato sospeso aveva assistito a tutto il passaggio della processione e, sdraiato com’era per terra, gli arrivava assordante il rumore che, ad appena un metro di distanza, i « fratelli » producevano battendo contro la roccia e i sassi del sentiero i loro scarponi che ad osservarli tra gli spiragli del cespuglio gli arrivavano ingigantiti.

Si era avviato da Trasacco nell’imbrunire non visto da nessuno e, dopo aver attraversato campi e fossi, evitando sia le vie principali che i viottoli, era arrivato alle prime falde del bosco di Candelecchia deciso ad attuare il suo piano criminoso, da tempo ideato ed elaborato nei minimi particolari. Aveva infatti seputo da qualche giorno che Ferrone si sarebbe recato a Candelecchia il sabato sera, a lavoro terminato e che sarebbe quindi giunto nel bosco di notte. Nessuno, dato il suo temperamento scontroso e sprezzante, l’avrebbe seguito; in paese non aveva amici e tutti lo evitavano. In una delle svolte dei viottoli, nella -prima rampa del bosco, con un colpo di pistola lo avrebbe freddato, facendosi giustizia con le proprie mani. Poi di nuovo, attraverso i campi, con il favor delle tenebre sarebbe tornato in paese. Dato il via-vai della gente per la strada di Candelecchia, il colpevole sarebbe stato invano cercato tra i « fratelli » e nessuno avrebbe certo -Densato a lui, che del resto, come tutti sapevano. non era stato mai a « Sant’Angelo » ed anzi spesso in varie occasioni. in pubblico ed in privato. aveva sempre criticato quel ritiro. che in fondo con la scusa delle meditazioni sui problemi della vita e della morte non faceva altro che perdere tempo alla gente proprio nel mese di maggio, quiando i lavori dì campagna si intensificavano.

Se il colpo fosse riuscito, sarebbe stata completa la vendetta contro Ferrone, il quale Mi aveva soffiato il posto da « garzone » presso Don Pasquale Verlecchia. facendosi appoggiare da un noto esponente politico del paese.
Lo avevano accusato di essere un ubriacone, di trascurare le bestie affidategli e, cosa più grave, di sparlare spesso del padrone, quando era in preda ai fumi del vino. Dopo questo licenziamento, nessun altro lo aveva più voluto: eppure il mestiere suo lo sapeva, nè era facile trovare uno migliore di lui nel caricare il carro o nel trasportare le barbabietole alla « pesa ». Evidentemente tutti pensavano che ci fosse sotto qualcosa di molto grave, mentre in effetti non c’era nulla, proprio nulla. In realtà solo raramente gli era capitato di non andare a governare le bestie all’ora stabilita e ciò, quando aveva bevuto un po’ più del solito. Del resto era forse una colpa bere? Non lo facevano forse tutti? Che poi, in preda al vino, avesse sparlato del padrone, non lo ricordava bene, ma poteva anche darsi. E poi non era forse cosa nota nel -paese che Don Verlecchia si era arricchito in Francia facendo parte di una banda di svaligiatori di banche e rimanendo per sempre impunito?

Immerso in questi pensieri, se ne stava ancora appiattato dietro il cespuglio un po’ stanco del cammino percorso, un po’ anche sorpreso dal silenzio interrottosi quasi all’improvviso da un rumore di passi che risalivano lentamente il sentiero. Si mise in ginocchio impugnò la pistola e scostò i rami del cespuglio per meglio vedere. Si stava sforzando di riconoscerle. Quando avvertì un altro rumore di passi alle proprie spalle. Ebbe appena il tempo di nascondere la pistola e voltarsi.
– « Rufì » s’udi una voce infantile, tra lo sconcertato e l’impaurito.
-Oh, « Rufì che fai? »
Rufino riconobbe subito colui che gli parlava: si trattava di Angelino , un ragazzo di una decina di anni che c’erto si era divertito a risalire attraverso il bosco evitando il gomito del sentiero. Tutto confuso e incapace di una risposta cercò di risollevarsi mentre il ragazzo gridava:
-“Oh zi Già, vieni qui, vieni a vedere”.
Gli altri accellerano il passo e subito dopo Rufino vide sporgersi dal cespuglio i visi incuriositi di zì Giacomo e di Ferrone e lì per lì si rese conto che Ferrone doveva essere stato raggiunto dagli altri lungo il sentiero ed aver fatto il resto del cammino insieme con loro. Zì Giacomo nel riconoscerlo apparve lietamente stupito:
« Oh, Rufì. Come mai anche tu a Sant’Angelo? Che ti sei convertito? E’ la prima volta in vita tua o mi sbaglio?». Rufino non rispose. Era intento a fissare in volto, Ferrone, e zì Giacomo, informato com’era del contrasto tra i due, dovette vagamente intuire, dallo sguardo che essi si scambiarono e dalla confusione dipinta sul volto di Rufino la segreta ragione della sua presenza.
« Oh, Rufì », continuò tuttavia con un tono che si sforzò di rendere cordiale. « Che non rispondi? Lo vedi, c’è anche Ferrone ».
« Sì, vado a Sant’Angelo », rispose con tono spento.
« Ero stanco e m’ero fermato ».
E girando intorno al cespuglio si rassegnò a fingere di recarsi anche lui al ritiro. « Ma ormai mi sono riposato. Andìamo? ».
« Qui sopra tutti si voglio bene »
– interruppe ad un certo punto zì Giacomo, cercando di stabilire un’atmosfera di cordialità
– « e magari tutto il mondo fosse così! Deponete ogni rancore, amici miei. S
an Michele Arcangelo, nel cui onore si celebra questo Sacro Ritiro, vi benedica ed ognuno di voi seguiti a vivere sotto i segni della sua benedizione ».
I due però seguitarono a salire senza rispondere. Intanto i brusii delle voci e i rumori della Chiesa ormai vicinissima crescevano sempre di più. Poco dopo tutti e quattro si trovarono nella piazzetta 1 pochi uomini ancora riuniti, nel farsi avanti a questi ultimi « fratelli » che arrivavano, rimasero sbalorditi vedendo Rufino, di cui ben conoscevano l’ostilità pel Sacro Ritiro, e per di più in compagnia di Ferrone. Alcuni aiutarono zi Giacomo a scaricarsi dalle spalle il grosso zaino, mentre un vecchio si rivolse meravigliate a Rufino dicendogli:
” Rufi, ma tu non porti neanche una ” mmutina ” ?
“La sua roba è qui con la mia” rispose -pronto zi Giacomo.
« Eh, Rufino è proprio un bravo giovane », continuò, notando che Ferrone s’era scostato e non era più in grado di udirlo.
« Figuratevi che per tutta la costa ha voluto portare lo zaino sempre lui ».
“E Ferrone? “, ammiccò il vecchio.
” Ferrone, Ferrone… Adesso lasciamo perdere… Del resto quassù non siamo tutti fratelli? “.
Ferrone, che s’era già diretto verso il fianco sinistro della Chiesa, dove una scaletta lungo il muro permetteva l’accesso al soffitto, si volse indietro e chiamò:
” E allora, zì Già? Che stai facendo? Non vieni? “.
” Ma si certo, aspetta “. E rivolto a Rufino:
« Presto, andiamo, Rufì. Ma che hai? Sembri addormentato ».
Così i tre con il ragazzo salirono insieme sino all’ampio vano ricavato dal soffitto della Chiesa, dove sul giaciglio di paglia s’era già sistemata una parte dei fratelli. « Sant’Angelo Michele mio » – ripeteva frattanto tra di sè zì Giacomo. – « Perdonami delle bugie dette e fa che nulla succeda ».
La notizia dell’arrivo della strana compagnia si era rapidamente diffusa, sicchè quando questa entrò, tutti gli sguardi si volsero verso di essa e vi fu quasi un attimo di silenzio. Ma bastò un affettuoso abbraccio di Taborre ai tre con un – « Ben venuti tra noi, fratelli » – perchè tutti ricominciassero a vociare ed a consumare la cena.

Anche il Padre Direttore e Lorituccio, il Prefetto del Sacro Ritiro, erano saliti nel soffitto a salutare i nuovi arrivati; c’era anche Cesidio il maestro dei Novizi di quel reparto. Nel volto di tutti si notavano una grande meraviglia ed una grande soddisfazione. Gli uomini erano seduti a gruppi di tre o quattro, di cui alcuni con le « mozzette » o addirittura con piccole roncole tagliavano ogni tanto grandi fette di pane da enormi pagnotte. Altri poi affettavano o spezzavano con le mani salame e salsiccie e facevano le parti delle frittate, distribuendo le porzioni, mentre le « copellette » e le bottiglie di vino giravano di mano in mano.

L’odore di paglia e il pulviscolo sollevato dal via-vai e dal muoversi continuo delle persone aveva creato un’aria quasi irrespirabile, che le due piccole finestre poste alle due estremità del sporgersi dal cespuglio i visi incuriositi di zì Giacomo e di Ferrone e lì per lì si rese conto che Ferrone doveva essere stato raggiunto dagli altri lungo il sentiero ed aver fatto il resto del cammino insieme con loro. Zì Giacomo nel riconoscerlo apparve lietamente stupito: « Oh, Rufì. Come mai anche tu a Sant’Angelo? Che ti sei convertito? E’ la prima volta in vita tua o mi sbaglio?».

Rufino non rispose. Era intento a fissare in volto, Ferrone, e zì Giacomo, informato com’era del contrasto tra i due, dovette vagamente intuire, dallo sguardo che essi si scambiarono e dalla confusione dipinta sul volto di Rufino, la segreta ragione della sua presenza.
« Oh, Rufì », continuò tuttavia con un tono che si sforzò di rendere cordiale. « Che non rispondi? Lo vedi, c’è anche Ferrone ».
« Sì, vado a Sant’Angelo », rispose con tono spento. « Ero stanco e m’ero fermato ». E girando intorno al cespuglio si rassegnò a fingere di recarsi anche lui al ritiro. « Ma ormai mi sono riposato. Andìamo? ».
« Qui sopra tutti si voglio bene » – interruppe ad un certo -punto zi Giacomo, cercando di stabilire un’atmosfera di cordialità – « e magari tutto il mondo fosse così! Deponete ogni rancore, amici miei. San Michele Arcangelo, nel cui onore si celebra questo Sacro Ritiro, vi benedica ed ognuno di voi seguiti a vivere sotto i segni della sua benedizione ». 1 due però seguitarono a salire senza rispondere. Intanto i brusii delle voci e i rumori della Chiesa ormai vicinissima crescevano sempre di più. Poco dopo tutti e quattro si trovarono nella piazzetta. 1 pochi uomini ancora riuniti, nel farsi avanti a questi ultimi « fratelli » che arrivavano, rimasero sbalordití vedendo Rufino, di cui ben conoscevano l’ostilità pel Sacro Ritiro, e per di più in compagnia di Ferrone. Alcuni aiutarono zi Giacomo, a scaricarsi dalle spalle il grosso zaino, mentre un vecchio si rivolse meravigliate a Rufino dicendogli:
« Rufi, ma tu non porti neanche una ” mmutina ” » ?
« La sua roba è qui con la mia » rispose pronto zì Giacomo. « Eh, Rufino è proprio un bravo giovane », continuò, notando che Ferrone sera scostato e non era più in grado di udirlo. « Figuratevi che per tutta la costa ha voluto portare lo zaino sempre lui ».
« E Ferrone? », ammiccò il vecchio.
« Ferrone, Ferrone… Adesso lasciamo perdere… Del resto quassù non siamo tutti fratelli? ».
Ferrone, che s’era già diretto verso il fianco sinistro della Chiesa, dove una scaletta lungo il muro permetteva l’accesso al soffitto, si volse indietro e chiamò:
« E allora, zì Già? Che stai facendo? Non vieni? ».
« Ma si certo, aspetta ». E rivolto a Rufino: « Presto, andiamo, Rufi. Ma che hai? Sembri addormentato ».
Così i tre con il ragazzo salirono insieme sino all’ampio vano ricavato dal soffitto della Chiesa, dove sul giaciglio di paglia s’era già sistemata una parte dei fratelli.
« Sant’Angelo Michele mio »
– ripeteva frattanto tra di sè zì Giacomo. –
« Perdonami delle bugie dette e fa che nulla succeda ».

La notizia dell’arrivo della strana compagnia si era rapìdamente diffusa, sicchè quando questa entrò, tutti gli sguardi si volsero verso di essa e vi fu quasi un attimo di silenzio. Ma bastò un affettuoso abbraccio di Taborre ai tre con un – « Ben venuti tra noi, fratelli » – perchè tutti ricominciassero a vociare ed a consumare la cena. Anche il Padre Direttore e Lorituccio, il Prefetto del Sacro Ritiro, erano saliti nel soffitto a salutare i nuovi arrivati; c’era anche Cesidìo il maestro dei Novizi di quel reparto. Nel volto di tutti si notavano una grande meraviglia ed una grande soddisfazione.

Gli uomini erano seduti a gruppi di tre o quattro, di cui alcuni con le « mozzette » o addirittura con piccole roncole tagliavano ogni tanto grandi fette di pane da enormi pagnotte. Altri poi affettavano o spezzavano con le mani salame e salsiccìe e facevano le parti delle frittate, distribuendo le porzioni, mentre le « copellette » e le bottiglie di vino giravano di mano in mano. L’odore di paglia e il pulviscolo sollevato dal via-vai e dal muoversi continuo delle persone aveva creato un’aria quasi irrespirabile, che le due piccole finestre poste alle due estremità del soffitto, costantemente aperte, non riuscivano a rinnovare; a ciò si univa l’odore dei cibi e del vino, simile ad un acre fermento che prendeva alla testa, sicchè chiunque vi entrasse rimaneva stordito e gli ci voleva del tempo prima di assuefarsi.

Zì Giacomo Rufino e il ragazzo si erano seduti nei loro giacigli uno accanto all’altro, e, mentre zì Giacomo tagliava con la « mozzetta » il pane, Rufino tutto stordito per lo strano precipitare degli eventi, per la stanchezza, per la fame e per l’aria pesante, guardava il soffitto con gli occhi apparentemente vuoti. Mai si sarebbe aspettato un tale epilogo del suo, piano. Doveva però continuare a fingere. Durante la notte avrebbe deciso. Ferrone, dal suo canto, mentre si sfibbiava il tasca-pane, si convinceva sempre di più che il suo rivale era venuto fin lassù per affrontarlo, e doveva pertanto essere grato alla presenza di A Giacomo se nulla gli era accaduto. Cominciò quasi a tremare e si avvicinò a zi Giacomo come a trovar protezione; gli si sedette vicino e consegnò le sue provviste per consumarle insieme. Anche Rufino in quell’istante allungava la mano per prendere la porzione di -pane e peperoni fritti che zi Giacomo gli offriva. Così i due nemici cenarono insieme rapidamente. Rufino a testa bassa, con gli occhi ostinatamente fissi a terra.
Ferrone anch’egli in silenzio, con nell’animo un misto di timore e d’improvviso inconsapevole rimorso, cercando -più vole di incontrare lo sguardo del suo, avversario. Provò perfino a tendergli il suo vino e Rufino, dopo un attimo d’esitazione, accettò -pieno d’imbarazzo, limitandosi Però a lasciarsi inumidire le labbra e restituendo poi il fiasco con un grazie appena percettibile.

Intanto quasi tutti avevano finito di cenare e stavano per iniziare le preghiere della sera. Dal basso, dalla Chiesa, arrivavano già le prime voci dei preganti e in un angolo si udiva sommesso lo intercalare del Rosario dei morti. A poco a poco la cantilena si fece generale ed anche gli uomini che erano nel soffitto tornarono a levarsi. Dopo il Rosario, il Prefetto intonò la Giaculatoria: « Viva Gesù e Maria »; così cantando, avanzava con le braccia aperte; i « fratelli », anch’essi cantando, camminavano dietro di lui con le braccia aperte. Di poi sempre preceduti dal Prefetto ridiscesero in basso e penetrarono nella Chiesa già stipata di fedeli.

Rufino e Ferrone, sospinti dalla folla, erano ora l’uno accanto all’altro, gomito a gomito, e Rutino poteva avvertire il fremito dei braccio dell’altro e l’ansare del suo petto. E questo tatto gli provocava per tutto il corpo come un brivido di natura strana, misto d’eberezza e di smarrimento, quasi che l’mpotenza in cui si trovava, pur non attenuando il suo odio, lo gettasse in preda ad una specie di angoscia e di stupore. E questo stato s’accentuò quando per la Chiesa cominciarono a propagarsi le prime note dell’organo, prima turgide e lente, poi man mano più agili e quasi esiti. Si guardava intorno, osservava pieno di meraviglia l’atteggiamento di coloro che lo circondavano, di z! Giacomo così assorto, con gli occhi socchiusi in quel volto grezzo, e tutto solcato da rughe, di Ferrone anch’egli intento, con le mani congiunte e le labbra che parevano tremare, e si senti a poco a poco invaso da un sottile senso di umiliazione e di segreta tristezza: come se per la prima volta, dopo tanto tempo, avesse voglia di piangere e non ne fosse capace e dovesse intanto fare uno sforzo immenso per ricordarsi che lì accanto c’era anche Ferrone, e che era salito fin lassù per ammazzarlo e che una ora prima l’avrebbe certamente ammazzato se non ci fosse stato zì Giacomo, e il pensiero d’aver potuto desiderare una cosa simile gli facesse provare ora un sentimento di solitudine e d’immenso distacco dagli altri e gli serrasse un gruppo tenace alla gola di lacrime che avrebbe potuto versare o di parole che avrebbe voluto pronunziare senza tuttavia riuscire a pensarle. Sicché, quando gli altri s’inginocchiarono e intonarono in coro il « Vi adoro », li imitò meccanicamente, restando però fisso ad osservare in direzione dell’altare i ceri che tremolavano, le volute dell’incenso, la fiamma d’oro dell’ostensorio, senza veramente pensare a quel che faceva, ma solo desideroso di comportarsi come gli altri. Più tardi, quando la funzione fu terminata e fu risalito sulla soffitta, si sentiva spossato, con le membra a pezzi. E s’abbandonò senza resistere al sonno e a un rincorrersi di sogni confusi sovrapposti gli uni agli altri.

Nel sogno a Rufino sembrava di correre affannato lungo una strada, in fondo alla quale, lontano, vedeva Ferrone. Era deciso ad affrontarlo, ma, pur correndo, non riusciva mai a raggiungerlo, perchè il nemico, sebbene fermo, rimaneva sempre alla stessa distanza. L’affanno gli cresceva continuamente, talchè decise ad un certo punto di fermarsi. E si fermava e teneva la pistola ancora in mano e gli sembrava di sentire da lontano un suono, una serie di suoni, tutto un coro che saliva, e avrebbe voluto anch’egli cantare e non se ne sentiva capace e avrebbe voluto sparare, ma avvertiva un formicolio al braccio ed alle dita e non aveva la forza di premere il grilletto. La corsa riprendeva, Ferrone era ad un passo da lui, ma non era più il volto di Ferrone, e Rufino non sapeva più di chi fosse e cercava di ricordarsene, ma c’era una siepe e quel volto era nascosto dietro la siepe e alle sue spalle Rufino avvertiva il rumore di un passo, una serie di passi e una voce che cantava e come un suono di campana che gli squillava ora addosso e lo lasciava stupefatto con l’impressione di essere sdraiato per terra, con gli occhi che facevano fatica ad aprirsi; e di là c’era un brusio di voci festose e una mano che l’aveva preso per un braccio e lo scuoteva. Finalmente riuscì a svegliarsi, distinse il volto di zì Giacomo curvo verso di lui, udii il suono della campana nella chiesetta.

« Eh, Rufi. Ma che fai? Sveglia, sveglia… Ma non vedi che è tardi? » – gli gridò zi Giacomo.
Quando si alzò dal giaciglio, quasi tutti erano scesi nella piazzetta. S’affrettò e scese anche lui.
Stava intanto per avere inizio l’ultima processione del bosco di Candelecchia. Già l’aria risuonava delle voci dolci ed armoniose dei « fratelli »:

« Sant’Angelo Michele
Difendete l’alma mia
Nella vita ed agonia
Acciò scampi il di crudele ».

Era il canto intercalato alla preghiera della Coroncina di San Michele Arcangelo. E subito il gruppo dei Cantori ricominciava : « Col più profondo ossequio vi adoro, Santissima Trinità, Cantando lo « Stabat Mater «, la processione si avviò, s’ad e v’offerisco le adorazioni ed i cantici di lode, che ricevete dal coro degli Arcangeli e dal Principe di tutti i Cori Angelici San Michele Arcangelo ». Rufìno in un gruppo di Novizi insieme a Ferrone cantava anch’egli sotto la guida del maestro dei Novizi, Cesidio. Lo faceva quasi inavvertitamente, con la mente sgombra da ogni pensiero. Pur non avendo preso parte ai riti svolti prima della processione, gli sembrava avere nel volto i segni della gioia che la Domenica il giorno conclusivo del Sacro Ritiro, dominava tutti i « fratelli », come se ciascuno di essi, dopo tre giorni così intensi di preghiere e di espiazione, avesse dimenticato d’essere mai vissuto altrimenti, e quel clima irreale d’estasi e di fervore fosse invece il clima effettivo di tutta la sua vita.

Cantando lo « Stabat Mater », la processione si avviò, s’addentrò lenta per i boschi. Dal paese lontano arrivavano gli echi dei suoni delle campane, che preannunziavano il tripudio e l’ansia della popolazione per l’attesa dei
« fratelli » di Sant’Angelo: e tali echi fusi con suoni della campana della Chiesa di Candelecchia, che agli occhi dei « fratelli » appariva ora da lontano quasi sommersa nel bosco, e con i canti, con le preghiere e con le voci della natura in risveglio producevano un’armonia dolce ed irresistibile. Era uno spettacolo più intenso che la sera avanti. Rufino e Ferrone procedevano l’uno accanto all’altro per le vie del bosco. Dapprima ambedue estranei alla comune gioia, ma poi anch’essi a poco a poco, dimentichi l’uno dell’altro, inavvertitamente presi ed avvinti dall’atmosfera che li circondavano, acquistarono un aspetto sereno e si unirono al canto comune.

Per quasi due ore procedettero in tal modo. Quando, al termine della processione, i « fratelli » furono di nuovo nella piazzetta, Rufino sembrò quasi risvegliarsi da un sogno e s’accorse che, per quanto si sforzasse di ricordarsi delle cause del suo odio per Ferrone, non riusciva a rintracciarle e notava che al loro posto era subentrata una specie di languidezza e di stordimento senza perchè. Nell’intensità del canto finale la schiera fu tutta percorsa da un fremito che a poco a poco si fece così forte che Rufino fu costretto a sedersi. Spentosi il canto, egli si trovò così al centro di un gruppo di persone che si erano macchinalmente fermate intorno a lui. Tra di esse Taborre iniziò a voce alta la lettura di passi di un libro di Chiesa; le sue parole risuonavano quasi paurose; « Quando sotto la terra nel tuo corpo brulicheranno i vermi!… Quando sarai ridotto in polvere!… ». Sempre seduto con la testa tra le mani e con gli occhi spalancati, Rufino fu intensamente preso da tale lettura. Rimase quasi atterrito e stordito da quelle verità così palesi. Sì, tutto era vano e così piccolo, e tutto scompariva di fronte all’eternità ed al mistero delle cose e di fronte alla grandezza di Dio! Si proiettò per un momento nel futuro; pensò cosa sarebbe stato di se stesso, del suo nemico e di tutti gli esseri viventi nella terra di lì a cento anni. Ebbe quasi paura. Taborre continuava imperterrito la lettura; ed egli lo seguì con le guance bagnate di lacrime. Ormai l’odio non esisteva più nel suo animo.

Di colpo si sentì chiamare: « Fratello Rufino ».
« Ave Maria »
– rispose, alzandosi di soprassalto ed avvicìnandosi subito verso il gruppo dei Maestri dei Novizi, che stavano predisponendo i « fratelli » per il « Bacio del perdono ». S’inginocchiò nel posto indicatogli e quasi contemporaneamente gli si inginocchiò a fianco Ferrone. Anche gli altri si disponevano in ginocchio secondo l’ordine dei Maestri dei Novizi, i quali volutamente facevano in modo che capitassero insieme i nemici o comunque quelli ritenuti tali. E fu un abbraccio generale commosso. Rufino e Ferrone rimasero abbracciati a lungo con i volti bagnati di lacrime. Il sole si faceva sempre più alto e con la sua crescente luminosità sembrava prendere parte all’immensa e mistica festa.

Ormai il Santuario di Candelecchia era lontano. Il silenzio era tornato ad avvolgere la mistica solitaria Chiesa, simbolo di pace e di amore. La processione dei « fratelli », gioiosa al suono degli inni armoniosi, aveva già lasciato la costa del bosco ed aveva imboccato la strada del piano, mentre la popolazioone in festa attendeva all’entrata del paese, per riabbracciare ogniuno i propri cari in una comunione profonda di amore.

(Da giornale della Marsica del 12 aprile 1954)
(Per gentile concessione dell’autore)

(Testi tratti dal libro “Trasacco e Candelecchia”)
(Testi a cura di Don Evaristo Evangelini)

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