Vincenzo Corsi

Le radici di Vincenzo Corsi. I disegni rincorrono sentieri, selciati,
porte e case di Collelongo e Trasacco.

La creazione di Vincenzo Corsi, che ho scoperto in una sua mostra trasaccana nell’ultima estate, è tutta ritmata nell’antica arte del disegno, ma di un disegno che finalmente, nella corrente scomposizione schizoide dei, piani del reale, recupera all’estremo lindore delle linee i grandi insegnamenti accademici: e per fortuna non se ne vergogna, in un’epoca nella quale ora l’ignoranza della prospettiva e dell’anatomia, ora il soggiacere alla confusa imitazione dei messaggi picassiani si fanno occasione, anche nelle esperienze di provincia, di una pittura disautentica, senza codice comunicativo, talvolta fanciullesca dilettazione intorno a macchie e colori.
La grande dignità classica del tratto di Corsi – quella dignità che accompagna sempre, nell’umiltà del costruire immagini leggibili, ogni serio iter artistico diviene, tuttavia, densa e paziente rielaborazione del dato concreto in masse grafiche che suscitano dal visibile il gioco degli spessori e delle ombre, delle luci improvvise e delle distanze: cosi che dall’esercizio accademico si passa subito alla suggestione e alla potenza dell’opera d’arte.

La minuzia quasi fotografica dei particolari, questo gusto attentissimo del trasferire sul cartoncino pietra su pietra, piega su piega, si riscatta subito nell’incantesimo di interiori vissuti, nei quali la cifra emblematica delle presenze segrete, sottostanti al calco fedele, mi è sembrata l’improvvisa collocazione di carri contadini nelle solitudini delle strade e dei corsi all’ombra dei vicoli. Il disegno, poi, in questa serie di immagini che rincorrono sentieri e selciati e porte e case di Trasacco e di Collelongo, diviene la testimonianza di un’umanità attenta alla dimensione arcaica e nobilissima dei paesi.
I grappoli di case, ora guardati dal fondo dei vicoli in salita, ora dall’alto, nel loro arcano coacervo di mura e di tetti, sono la sede, di una civiltà architettonica fatta a misura dell’uomo, un topos per la creatura che, nell’intrigo delle invenzioni costruttive e nell’estrema povertà dei materiali, vi si ritrova nella sicurezza dell’essere nel mondo.
Dove è comprensibile che, distaccata da questi consueti modelli, da questi camini e da questi odori, e proiettata nello squallore ripètitivo dei falansteri delle città, la gente di qui si esponga ad una perdita dell’anima o ad una sconvolgente angoscia del sé deprivato di senso.

Corsi, indipendentemente da ogni valore della sua arte, ha fatto, forse inconsapevolmente, una sorta di antropologia architettonica, costruendo per quanti sono nella Marsica la mappa parlante di una cultura sofferta proprio in un’epoca nella quale anche in questi paesi al dovere della conservazione si sostituisce la follia del piccone.
E’ da augurarsi che questi scorci stupendi di paesaggi vengano preservati, non già nell’assurda inezia dei cosiddetti « centri storici » pullulanti ormai in ogni villaggio, ma come luoghi di una vita che sappia ritrovare i dispersi significati calati in queste pietre dalle generazioni che furono. Alfonso Maria Di Nola

…Nessuno saprà mai cosa cercassero i viaggiatori inglesi che, per primi, ruppero l’isola’ mento ultrasecolare di queste terre.
Cercavano immagini arcadiche da dipingere con acquerelli delicati? Ho sempre cercato di immaginare la meraviglia delle loro facce appena girato l’ultimo tornante di Forca Caruso.
Si sa bene invece cosa cercasse il grande storico tedesco Gregorovius: cercava i segni di una storia millenaria per arricchire la conoscenza del mondo di Roma e dei suoi confinanti più prossimi.
Lo storico tedesco venne a cercare questi segni, li trovò e scrisse pagine memorabili che fecero conoscere l’Abruzzo e la Marsica al mondo intero. Questi segni di Vincenzo Corsi sono debitori di tutte queste cose.
Della bella vegetazione che cresce rigogliosa lungo i canali che sono l’ultima spia di un lago che non c’è più.
Delle facce bruciate dal sole, dalla fatica tremenda, delle pene di ogni giorno. Sono le facce di contadini, di pastori che popolano come fantasmi le coste del lago e i non lontani villaggi di montagna.

Ottaviano Del Turco

«…Abituati a cogliere dilacerazioni, antinomie, rovine (anche morali) di questi nostri tempi segnati dalla presenza del male, ci è parso di tornare sia pure per poco in un perduto territorio dell’anima, dove gli affetti sono ancora affetti, dove una finestra fiorita comunica ancora messaggi d’amore, dove le strade conservano nel loro silenzio una struggente segretezza di pensieri o, d’incanto, ti aprono un lembo di cielo, una scalinata, un arco attraverso cui sfugge la luce per incontrarsi con le ombre. Pietre, case che si parlano tra le persiane socchiuse, porte sempre socchiuse, un carro, un lampione e il selciato che ritma i tuoi passi… »

Leonello Farinacci – 1978

«…se da una parte c’è rammarico, dall’altra non manca la segreta speranza che le persone possano rientrare in un sfera più giusta. E’ in questa cornice che noi possiamo meglio attingere il significato di quelle strade deserte, di quelle muraglie studiate sin nei minimi particolari, di quegli alberi scarni, di quei tratti di paese mutati dell’età consumistica. Questi motivi, però, sono sempre delicatamente velati o, almeno, costituiscono il motivo occasionale dell’opera, preferendo l’artista attenuarli con quella visione pacata ed essenziale della realtà, che si vivifica e si trasfigura alla luce del ricordo di un’esperienza che non è più… »

Carlo Cambise

« I suoi disegni si muovono in tempi e spazi essenziali della nostra vita di paese mostrandoli con tecnica attenta e sensibile.
Una forte nota captativa della realtà esterna è caratteristica costante della sua opera »

(P. O. D’Agostino e C. Cambise da Il tempo del 30/9/76)

Storie e Cultura
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